“Ma guarda che tu scrivi bene, per me dovresti pubblicare qui qualcosa”.
Era la fine della terza media, avevo concluso i tre anni più brutti nella vita di ogni essere umano con un buon voto, ed ero a casa della mia amica Manuela a bere litri e litri di thè alla pesca e mi stava mostrando una applicazione molto in voga ai tempi: wattpad. Era sì, il 2014, avevo il mio primo cellulare con una offerta da 2 gb di internet al mese e no, non avevo il wi-fi in casa, e da Manu ci collegavamo al wi-fi pubblico del FVG. Che beh, come tutte le cose pubbliche funzionava una volta su 10, ma ci faceva sentire delle signore del futuro. Ce ne stavamo distese a giocare con il suo cane, stavamo per iniziare due scuole differenti e mi stava mostrando come funzionava la pubblicazione delle storie, un capitolo alla volta e con la possibilità di commentare. La installai.
Ho cominciato effettivamente a pubblicare su Wattpad la mia storia, dove raccontavo in maniera super ironica quanto ascoltare musica rock/metal in provincia fosse sì frustrante per il sentirsi costantemente diversi, ma anche quanto fosse bello emozionarsi per cose che tanti non notavano o conoscevano. Parlavo dei Green Day, My Chemical Romance, Arctic Monkeys, AC/DC, Guns And Roses, insomma il pacchetto completo da ascoltatore di Virgin Radio; ma nominavo gruppi che effettivamente a 13/14 anni è abbastanza raro ascoltare come PFM, Tool, L’invasione degli Omini Verdi, ho perfino nominato Lo Stato Sociale che aveva pubblicato solo due dischi ma io ero già in lacrime ad ogni nota di “Amore ai tempi dell’Ikea”, gli Urban Strangers che sì, avevano davvero talento anche se si sono sciolti pochi anni dopo il mio pesantissimo innamoramento del loro sound. E nominavo molto i 30 Seconds to Mars, che poco dopo la decisione di chiudere la storia ho sentito dal vivo per la prima – e grazie a Dio ultima, dato che Jared Leto avrà cantato 5 parole massimo e tutto il resto lo faceva il pubblico – volta in vita mia. E proprio per quel concerto fui aggiunta ad un gruppo WhatsApp e schivando il più possibile il cyber-bullismo immotivato presente, ho conosciuto tramite quel gruppo la persona con cui ho avuto la prima relazione della mia vita. E probabilmente senza Wattpad non mi sarei mai resa conto di quanto le mie parole, per quanto semplici, ironiche, potevano essere d’aiuto a chiunque si sentisse escluso in età adolescenziale: la storia raggiunse 150mila visualizzazioni e ancora oggi ricevo messaggi di ringraziamento da parte di persone che leggendola oltre a ridere si sono sentite meno sole. E sono davvero convinta che questo sia l’unica strada che voglio continuare a seguire a livello artistico. Creare ponti e non muri fra le persone. Manuela, tramite quel gesto molto dolce da amica che consiglia qualcosa di bello alla sua compagna di scuola, aveva dato via ad un effetto farfalla immenso.
Ora sono passati 10 anni da quel momento, e sto imparando a riprendere in mano quello che scrissi al tempo, guardare quelle parole con dolcezza e non alla ricerca della critica spietata, perché sono e restano parole relative ad una 14enne innamorata follemente della musica, che per quanto “scrivesse bene” aveva comunque 14 anni e tantissime cose da imparare ancora.
Una delle storie a cui sono rimasta più affezionata è quella che vi riporto qua sotto, dedicata ai Red Hot Chili Peppers. Nei 15 giorni precedenti a San Valentino, pubblicai ogni giorno un capitolo dedicato a 15 band diverse. Collaborai un po’ con altre ragazze, un po’ scrissi di mio pugno alcuni capitoli, ma raggiunsi il mio obbiettivo: far sentire quanto l’amore per la musica e la comunità che si creava attorno ad essa, fosse ben superiore a molte dichiarazioni romantiche senz’anima. Questa è una delle storie scritte in quei 15 giorni, quei 15 giorni di felicità perché già sentivamo la pressione di ma-quando-ti-trovi-il-fidanzatino ma a noi ce ne importava poco, eravamo ragazze Tumblr dai capelli viola con le cuffiette di Tiger nelle orecchie, 5 euro in tasca quando eravamo al top dell’indipendenza finanziaria, con una dieta a base di pizza al trancio schifosissima e rancore verso il liceo che stavamo frequentando, sognando il nostro futuro a Londra con casualmente Alex Turner come vicino di casa e avere un nome da ragazza bianca media stile Emily, Jade, Alexis, Becky. Anche se eravamo Flavia da Bassano del Grappa, Maria Francesca da Aci Trezza e nel mio caso Ester dalla provincia di Udine.
Buona lettura e buon tuffo nella nostalgia.
***
Day I – tell me baby
Ogni racconto romantico che si rispetta, comincia subito con una frase d’effetto. Ma, in fondo, questo non è un racconto d’amore, e le solite cose smielate.
“La notai subito, lei era diversa”
Cominciano sempre così queste storie storie, ma la realtà é molto distante da questo ideale.
“Non la notai subito, tutti erano sempre pronti a fare i diversi, restando comunque tutti uguali, lei era assolutamente normale”
Forse potrebbe cominciare così. Perché lei non era un’aliena, non era la classica macchia nera in un opprimente universo bianco, non si faceva notare facilmente.
Lei era invisibile.
Non lo so perché, ma più di qualche volta mi ritrovavo a fissarla, mentre camminava da sola. Frequentavamo più o meno gli stessi luoghi, anche se era molto difficile vederla. E, a volte, prendeva il mio stesso treno, la mattina.
Eppure continuavamo ad essere semplici estranei.
E lei continuava ad essere mostruosamente normale.
Fino ad un altro di quei noiosi giorni assolutamente normali.
Pioveva, e lei si sedette affianco a me. Unico posto libero, del resto, quindi dubito che lo abbia fatto per rendersi conto che esistevo.
Cercò per parecchi minuti qualcosa nella sua borsa, senza risultati, poi sbuffò e si raggomitolò nel sedile, guardando nel vuoto.
Io guardavo tutto quello che faceva dal riflesso del finestrino, era curioso averla vicino.
Mi ritrovai a ragionare sul testo di quello che stavo ascoltando.
Mi girai verso di lei, guardandola. Poi mi tolsi una cuffietta e glie la passai. Lei la prese, in silenzio, e se la mise.
Poi mi guardò.
They come from every state to find
Some dreams were meant to be declined
Tell the man what did you have in mind
What have you come to do?
E sorrise impercettibilmente.
“Ti piace?”
Le domandai. Lei si limitò ad annuire.
Due perfetti estranei che ascoltavano musica, senza essersi mai parlati.
Questo, era strano.
Tell me baby what’s your story, where you come from
And where you wanna go this time?
Tell me lover are you lonely?
The thing we need is never all that
Tell me lover are you lonely?
The thing we need is never all that hard to find
Tell me baby what’s your story, where do you come from
And where you wanna go this time?
You’re so lovely, are you lonely?
Giving up on the innocence you left behind
Me lo chiesi davvero, quello che diceva il ritornello. Era sola? Qual era la sua storia?
La guardai, rendendomi conto che anche lei mi stava fissando.
Rimase immobile, e senza muovere un muscolo.
Rimanemmo a distanza per un bel po’, senza dire nulla. Prima fermata.
Le persone scendevano a fiotti, e sul treno rimanemmo in pochi. Anche le due ragazze sedute di fronte a noi scesero, e mi venne naturale pensare che lei si spostasse.
Ma rimase immobile, guardandomi.
“Come ti chiami?”
Mi chiese, di punto in bianco, mentre il treno ripartiva.
Era la prima volta che la sentivo parlare.
Era la prima volta che si rivolgeva a me.
Mi resi conto che aveva una voce assolutamente carina
“Alex”
Gli risposi semplicemente, girandomi verso di lei. Solo in quel momento mi resi conto di quanto fossimo vicini.
“E tu?”
Gli domandai, guardandola negli occhi scuri.
“Julie”
“É un bel nome”
Dissi istintivamente
“A me non piace”
Rispose lei, tornando a guardare il vuoto
“Come mai?”
Allungai la mano verso la sua, sfiorandola. Lei si ritrasse immediatamente. Arricciò il naso.
“Sa troppo di snob, tipo una che se la tira, no?”
Disse, alzando le spalle.
“A me no.”
Mi guardò confusa.
“Mi sa di…non so come dire…sognatrice. Una che sa immaginare in grande”
Mi morsi il labbro.
“Ho detto una cazzata vero?”
Dissi guardandola.
“Forse no”
Mi rispose sorridendo leggermente, come aveva fatto poco prima.
Si avvicinò un po’di più.
Rimanemmo in silenzio per un po’, guardandoci negli occhi.
“Quindi ti consideri una sognatrice?”
“Più o meno”.
Avevo un disperato bisogno di continuarle a parlarle, ti saperne di più di lei, cosa sognava, cosa voleva ottenere, volevo sapere cosa si era guadagnata nel tempo e cosa avesse perso, le sue gioie e i suoi fallimenti, volevo sapere ogni dettaglio di quella ragazza, ogni sfumatura, ogni sfaccettatura, ogni lato del suo carattere e della sua personalità. Eppure non riuscivo a formulare nemmeno una domanda decente.
“E Alex? Di cosa ti sa?”
“Non lo so. Ma so che tu non sei quello che sembri”
“Perché? Come sembro?”
Quello confuso ero io, sta volta.
“Non sembri uno che a primo impatto prende e ti fa ascoltare rock.
Ti vesti assolutamente normale, ma ascolti Red Hot Chili Peppers, Joy Division, Velvet Underground, Genesis, Pearl Jam…mi hai appena fatto sentire gruppi che sembrano lontani anni luce da come tu appari”
“Appunto. Appaio”
Le risposi, allungando la mano per spostargli una ciocca di capelli che gli che gli ricadeva sugli occhi. Non si ritirò, non mi respinse. Chiuse gli occhi, serena, mentre la sentivo rilassarsi al mio tocco. Poi li riaprì lentamente, fissandomi.
“Hai presente “Tell me baby”? Quella canzone che mi hai fatto sentire prima? Tu sei così”
“Cioè?”
Continuavo a non capire
“L’inizio sembra di una canzone qualunque, tutto calmo, poi di colpo si stoppa e comincia la canzone vera e propria. Tu sei così. Prima sembri un vicino di viaggio come tutti, poi mi passi le cuffiette senza dire nulla e scopro che ascolti la mia stessa musica.”
Le sorrisi, tenendo il suo viso tra le mie mani.
“Io sarò la musica, ma tu sei le parole”
Lei sorrise.
“Tell me baby, what’s your story? É questo che vuoi sapere?”
Annuì.
“Sarà lunga da raccontare”
Disse guardo per terra. Poi alzò lo sguardo verso di me
“Facciamo un patto”
“Spiegati meglio”
“Io ti racconto la mia storia, ma tu devi accettare ogni cosa che ti proporrò di fare”
“Sto pensando male”
Dissi sorridendole. Lei scosse la testa
“Pervertito. Accetti?”
Disse allungando la mano.
“Non so cosa aspettarmi, ma accetto”
Allungai anche la mia mano e la strinsi, sentendo la sua pelle rovinata dal freddo tra la mia.
Lei sorrise, mi prese la mano e si alzò.
“Alla prossima fermata scendiamo”
Solo in quel momento mi accorsi che eravamo tre fermate dopo la mia solita. A forza di parlare, di ascoltare musica e di stare semplicemente in silenzio, il tempo era volato, come il mio cervello. Non era la prima volta che saltavo scuola, in fondo non mi dispiaceva passare una giornata con lei. Julie, con la sua normalità, aveva la capacità di mandarti fuori di testa.
Le sorrisi, stringendogli più forte la mano.
Il treno rallentò, per poi inchiodare di colpo e far finire praticamente a terra tutti. In tutti i film lei cade, lui la prende al volo, si guardano, scena rallentata e poi SBABAM! cominciano a scambiarsi saliva. In realtà fui io a cadere. Ma nessuno mi prese al volo.
Julie si girò e mi guardò preoccupata. Poi vide che stavo ridendo (in fondo in queste scene non si può far altro che ridere), si mise a ridere come una matta anche lei, mi allungò una mano e mi diede una mano ad alzarmi. Poi uscimmo velocemente. Lei non la smetteva di ridere, e tanto meno io, nonostante avessi un gran male al fondo schiena.
“Cosa facciamo?”
Dissi, guardandomi intorno.
Lei mi prese la mano, e cominciammo a camminare, lontano dalla stazione. Era un paesino minuscolo, con centinaia di palazzi altissimi e grigi. Il classico quartiere abitato solo da cemento.
“Ti va di mangiare qualcosa?”
“Direi di sì, non ho fatto colazione”
Le risposi, dirigendomi verso il primo bar che vidi. Aprii la porta e la feci entrare. Tutto sommato era un locale abbastanza bello, e almeno lì dentro faceva caldo.
Ordinammo due cappuccini e due brioche, al cioccolato, e mangiammo in silenzio.
“Come mai hai scelto di venire qui?”
“Dopo lo vedrai”
Finimmo di mangiare rapidamente, pagai io, nonostante Julie avesse tentato inutilmente di offrire lei, e la barista, che stava praticamente rotolando dalle risate, ci diede due cioccolatini, quelli che hanno la frase dentro.
“Tanto siete gli unici clienti della giornata”
Disse semplicemente. La ringraziammo, ed uscimmo.
Julie scartò subito il suo, e tirò fuori il bigliettino, leggendolo ad alta voce.
“OGGI È UN BUON GIORNO PER SORRIDERE”
Disse con voce autoritaria.
“Leggi il tuo”
Io annuì, e lo scartai.
“chi trova un amico, trova un tesoro. Ma hanno ancora il coraggio di scrivere ‘ste cose?”
“Certo Alex, certo”
Disse lei ridendo. Continuammo a camminare, fino a che lei non si fermò e tornò indietro.
“Sei mai stato al mare d’inverno?”
La guardai confuso.
“Sinceramente no, perché?”
La vidi sorridere, mi prese per un polso e cominciò a correre, fino alla fermata di un autobus, su cui si affrettò a salire. Comprò due biglietti, e ci sedemmo infondo.
“Mi stai seriamente portando al mare?”
“Lasciati andare Alex”
Disse sorridendo. Gli misi una cuffietta nell’orecchia, lei appoggiò la testa sulla mia spalla, e lasciai che la musica facesse la sua parte. Sentivo i suoi respiri profondi, mentre il mezzo partiva e si dirigeva lontano da quell’ammasso di cemento.
Dopo circa tre quarti d’ora, arrivammo. Julie si era addormentata, e la svegliai delicatamente. Scendemmo, e ci dirigemmo verso la spiaggia.
Faceva un freddo allucinante, ma ci togliemmo le scarpe lo stesso, e cominciammo a camminare, in silenzio.
C’era bassa marea, e gran parte del bagnasciuga era coperto di alghe, lasciate dal mare, che era abbastanza agitato. Le onde si infrangevano violentemente tra i nostri piedi.
Camminammo a lungo, senza dire nulla.
A volte la vedevo chinarsi, per raccogliere una conchiglia, che si infilava in tasca.
Ad un certo punto, stanchi, ci sedemmo sulla sabbia tutti e due.
“É davvero stupendo”
Dissi, giocando con i suoi capelli.
“Vero”
“Ci vieni spesso?”
Dissi, guardando il cielo annuvolato dirimpetto a noi.
“Non molto spesso. Ma ci venivo molto quando ero piccola. É per questo che ti ho portato qui”
Sentii il suo stomaco brontolare. Aprii lo zaino, e tirai fuori il panino che avrebbe dovuto essere il mio pranzo. Lo divisi a metà.
“Direi che per due basta, no?”
Lei sorrise, allungando la mano per prenderne un pezzo.
“Grazie”
“Grazie a te, Julie”
“E di cosa?”
Disse, alzando le spalle.
“Di tutto questo.”
Mangiammo in silenzio, e il pomeriggio lo passammo a camminare e a disegnare figure immaginarie sulla sabbia, come bambini, ma era assolutamente stupendo.
“Tu sei felice?”
Le domandai. Stavamo guardando il sole tramontare, seduti sul molo.
“Oggi si”
Rispose semplicemente.
“Anche io, oggi”
Dissi, lasciando che lei si appoggiasse sulla mia spalla.
Dopo pochi minuti tornammo a prendere la corriera, che fortunatamente fermava anche nel nostro paese.
Passammo il viaggio senza dire nulla, fino al nostro arrivo.
“Ci vediamo domani allora.”
Le dissi.
“Così ti racconterò tutta la mia storia. Oggi hai visto il mio passato.”
“Grazie Julie. A domani”
Ci salutammo, e io mi diressi in convitto. Fortunatamente avrei dovuto avere rientro al pomeriggio, quel giorno, e nessuno sospettò nulla della mia fuga e del rientro a tarda ora.
Mi addormentai subito, senza nemmeno cenare, e passai tutta la notte a immaginare le nostre figure sulla sabbia che prendevano vita, e ballavano nella notte. Non c’era nulla che avrei saputo poter spiegare di quella giornata. Non avevo capito nulla. Bellissimo. Julie. La normalità.
Che quel giorno, era diventata straordinarietà.
Day II – snow
Quando mi svegliai, prestissimo, e aprii le finestre, cominciai a saltellare, come un bambino; stava nevicando.
Mi vestii velocemente, ed uscii con altrettanta velocità, correndo verso la stazione.
Julie arrivò dopo pochi minuti, sorridendo come un’idiota, ma era carina, davvero carina lo stesso.
“Visto che bello Julie?”
Disse prendendole il polso e portandola fuori dalla stazione. I grossi fiocchi ci cadevano sul viso, e c’erano già parecchi centimetri per terra. Era stupendo.
“Ti va di fare colazione insieme?”
Le domandai. E lei accettò. Ordinammo lo stesso del giorno precedente, e mangiammo velocemente, per tornare fuori.
Julie cominciò a correre, poi non la vidi più. Oltre al fatto che si stava scatenando una vera e propria bufera, lei era scomparsa.
“Julie!”
La chiamai. Nessuna risposta.
“Julie!”
Urlai di nuovo. Mi arrivò una pesante palla di neve in testa. Mi girai, ed era lei, con un altra in mano.
“Vuoi la guerra, eh?”
Dissi raccogliendone un po’da terra, per lanciargliela addosso. La centrai in pieno.
“HEADSHOT”
Del resto non puoi togliere il linguaggio da gamer ad un ragazzino un po’ strano.
Cominciai ad urlare, mentre lei mi guardava offesa, trattenendo visibilmente le risate. La neve cadeva sempre più forte, e di sicuro quel giorno nessun treno sarebbe mai partito. Quindi niente scuse quel giorno, avevamo tutto il tempo libero. Passammo ore a lanciarci palle di neve, e ad inseguirci a vicenda, fino a quando non fummo zuppi tutti e due. Cominciammo a camminare in silenzio, senza dire nulla, scambiandoci qualche debole occhiata ogni tanto.
“Sai cosa bisogna fare adesso?”
Lei mi guardò confusa.
Tirai fuori il cellulare.
“Bisogna urlare “Snow”, dei Red Hot”
Gli dissi semplicemente. E lei annuì. Quando partì il riff di chitarra iniziale, sentii un brivido lungo la schiena: quella canzone aveva una capacità innata di emozionarmi.
Come to decide that the things that I tried were in my life just to get high on,
When I sit alone come get a little known but I need more than myself this time
Step from the road to the sea to the sky and I do believe that we rely on when I lay it on, come get to play it on
All my life to sacrifice
Julie mi guardò. Poi urlammo insieme, in mezzo a quella bufera
Hey oh listen what I say oh
I got your
Hey oh, now listen what I say oh, oh
When will I know that I really can’t go to the well once more time to decide on
When it’s killing me
When will I really see all that I need to look inside
Come to believe that I better not leave before I get my chance to ride when it’s killing me
What do I really need, all that I need to look inside
Hey oh listen what I say oh
Come back and
Hey oh look at what I say oh
E poi, sbattendo gli anfibi sul marciapide, come la grancassa della batteria
The more I see the less I know
The more I like to let it go
Hey oh
E lei, come un idiota, spalancando le braccia verso la bufera che ci stava investendo
Wooooaaah
Deep beneath the cover of another perfect wonder where it’s so white as snow
Privately divided by a world so undecided and there’s nowhere to go
La urlammo tutta, fino a non avere più fiato in corpo. Poi Julie si fermò di colpo, davanti ad un ennesimo condominio grigio, e suonò il campanello. La sentii parlare alcune parole confuse in francese, nel citofono, che non riuscii molto a capire, sinceramente.
Poi il portone si aprì, ed entrammo.
“Che posto é questo?”
“Mia sorella abita qui. Se vuoi sapere la mia storia, prima devi conoscere lei.”
Mi limitai a sorriderle, poi mi avviai per le scale.
“L’ultimo che arriva é truzzo!”
Urlò Julie, per poi cominciare a correre, seguita da me.
“A ch piano abita?”
Urlai.
“Ultimo!”
Rispose lei. Non mi sembrava tanto lontano, e le corsi dietro.
Sua sorella abitava al dodicesimo piano.
Io stavo per sputare un polmone per terra.
Me la fece conoscere, ed erano davvero simili. Così capii che anche lei viveva con la sorella. E capii che i genitori lavoravano molto lontano da loro, che erano tutti e quattro francesi, e che erano tutti assieme nella stessa casa pochissime volte.
La storia di Julie era assolutamente normale, simile a quella di tanti, ma era lei stessa a renderla speciale.
Julie era straordinaria.
Mangiammo con la sorella, Jennifer, pizza ovviamente, e il pomeriggio tornai in convitto, e Julie mi accompagnò.
“Grazie per avermi raccontato la tua storia”
Le dissi, prima di entrare in camera.
“Grazie a te di avermi ascoltato e di aver fatto un sacco di follie insieme”
Rispose lei, allontanandosi.
“Ci sei domani?”
Le domandai, speranzoso
“Certo”
Mi salutò e se ne andò.
Passai il pomeriggio a studiare, con scarsi risultati, per non parlare della versione di latino, non mi ricordavo nemmeno la prima declinazione quel giorno.
Avevo solo in testa la solitudine che ogni giorno Julie affrontava.
E pensai a quanto mi sentivo bene con lei.
Day III – under the bridge
Mi svegliai, e nevicava ancora. Scesi in fretta, e corsi in stazione, ma non trovai Julie.
La aspettai a lungo.
Dopo quasi un ora arrivò, con il viso rigato di lacrime.
“Julie!”
Mi si buttó addosso, continuando a piangere.
La strinsi più forte che potevo, e lei non smetteva. La presi per mano e la accompagnai di sotto quella sorta di ponticelli sotterranei che collegano i vari binari. La feci sedere su una panchina.
“Julie cosa succede?”
Non riusciva a parlare e continuava a tremare. La strinsi a me.
“Succede che io me ne vado, Alex.”
Disse con voce rotta.
Non era possibile.
Non era immaginabile.
La conoscevo da troppo poco tempo, e lei se ne andava di già.
Queste sono cose che succedono solo nelle storie, non nella realtà.
Eppure era così.
Julie se ne sarebbe dovuta andare.
“I miei hanno trovato lavoro lontano da qui. Ce ne dobbiamo andare tutti, Jennifer compresa. Capisci Alex?”
Disse, con voce roca.
“Non puoi restare con lei? Infondo lei è maggiorenne”
“Ha trovato anche lei lavoro”
Disse, con voce piena di rabbia. Piansi con lei.
Mi aveva regalato i giorni più belli che avessi mai vissuto.
Ma se ne andava, come tutti.
Se ne vanno tutti.
Julie compresa.
“Quando parti?”
“Sto pomeriggio. E devo ancora fare le valigie.”
Disse, per poi riprendere a piangere. Passammo tutta la mattina li, senza dire nulla. Poi la chiamò Jennifer, e lei disse che doveva andare.
“Aspetta”
Allungai la cuffietta verso di lei. E misi “under the bridge” . Tutto era cominciato con i Red Hot, tutto sarebbe finito con i Red Hot.
La ascoltammo in silenzio, guardandoci negli occhi.
E quando finì, mi bació.
Velocemente.
E con le labbra salate, di lacrime.
Ci scambiammo i numeri di telefono, promettendo di chiamarci spesso.
E poi lei se ne andò, lasciandomi solo, sotto il ponte.
***
I bimbi sono nel cortile e non la smettono di urlare gioiosamente. Mi giro e guardo la fotografia di Julie, che sorride. Se ne è davvero andata qualche anno fa, a ottantasei anni, dopo anni e anni vissuti insieme. Perché alla fine, dopo chiamate di ore e ore, treni casualmente sbagliati e vacanze passate l’uno dall’altra, siamo riusciti a vivere insieme. E a stare insieme. Poi un figlio. Una figlia. Ed un altro figlio. E il primo nipote. Lei, la ragazza normale, che ha reso la mia vita straordinaria. Lei che non aveva bisogno di mostrarsi speciale, perché lo era e basta senza bugie, senza falsità e senza maschere. Nulla è mai stato forzato in noi, ci siamo scelti e abbiamo continuato a farlo. Chiudo gli occhi, respiro profondamente ed è proprio il momento di ascoltare Scar Tissue, ricordarmi che non è mai finita ma ad ogni ascolto penserò sempre a lei, la parte più bella della mia anima rimane la sua.
Ester Parussini, 2015.
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